Musei e Abbandono

di Giovanni Lanzone

Alastair Bonnet, il fantasioso geografo inglese che insegna all’università di Newcastle, racconta in Fuori dalle mappe, un libro dalla squillante copertina verde, viaggi sorprendenti in luoghi inaspettati. L’esplorazione dei sotterranei o dei manufatti abbandonati nelle aree urbane e peri urbane è un pezzo importante del suo racconto. Leggendolo mi sono subito venuti in mente alcuni dei progetti che senza tema abbiamo classificato nella categoria del bello e che abbiamo adottato e sostenuto come Fondazione: IN LOCO, il museo diffuso dell’abbandono in Emilia e il MuDIS, il museo diffuso dell’insediamento sparso che lavora sul patrimonio e sulle tradizioni del Sulcis in Sardegna. Perché ci siamo convinti che a modo loro queste  esperienze facciano parte del bello? In primo luogo per la grandiosità dei loro scopi, sono progetti che escono da una tradizione “vernacolare” che raccoglie i resti del lavoro in piccoli e polverosi musei contadini o in musei industriali modesti o senza un perché. In questi progetti si respira un’aria coraggiosa e uno spirito d’avanguardia.

Bonnet, pensando alle tante esperienze che nel mondo hanno anticipato le nostre (dai sotterranei di Minneapolis ai condotti abbandonati di Londra) dice, e a ragione, che l’abbandono si può paragonare a una variante geografica dell’arte surrealista: questi cunicoli e palazzi abbandonati, in fondo, sono enormi object trouvé.  Il conte di Lautréamont, Isidore Ducasse, diceva che l’arte surrealista non è altro che “l’incontro casuale su un tavolo anatomico di una macchina da cucire e di un ombrello”. Sottolineo l’idea del tavolo anatomico, perché in quel grande movimento, uno dei più longevi della storia dell’arte, gli oggetti ordinari, gli oggetti abbandonati entrano, attraverso un trattamento poetico al contempo nel campo visivo dell’arte e nel dominio del progetto. Gli oggetti surrealisti condividono con quelli dadaisti il sapore della critica ma spesso, non solo perdono e contraddicono in modo paradossale il loro uso comune, ma ne assumono “magicamente” uno nuovo. Solo in quel momento la schiena di una donna diventa un violoncello come succede nel Violon d’Ingres di Man Ray. È in questa corrente profonda, ai primi decenni del novecento, che il design trova la sua ispirazione e le sue fondamenta più stabili. Il design prende questa lezione, la rende indimenticabile e la applica al processo di decostruzione, ricostruzione degli oggetti quotidiani nel campo della produzione industriale o artigianale.

Nel nostro caso l’esplorazione e la mappatura dei grandi oggetti abbandonati è adrenalina e documentazione, una versione punk di Alexander von Humboldt. L’idea è quella di accedere a spazi proibiti e invisibili nel bel mezzo del paesaggio anonimo e quotidiano per preservare, documentare o progettarne il riuso. Essere i primi a trovare un mondo dimenticato, un po’ di rischio, il senso progressivo della scoperta, la meraviglia che rende felice la fatica, l’adrenalina che la rende grande sono le motivazioni che spingono gli esploratori urbani nei sotterranei o in mezzo ai rovi. Action Squad a Minneapolis – Saint Paul e il labirinto delle città gemelle, Service D.C. A Washington o i sotterranei di Londra sono i capisaldi e gli ascendenti di questa poetica.

L’idea, anche questa surrealista, è che nel quotidiano, nell’ordinario, ci siano più occasioni e possibilità di apprendimento e divertimento di quel che crediamo. “Uno scenario di paura e desiderio, un’oscura fonte di possibilità”, dice Peter Ackroyd nel suo libro sui sotterranei di Londra. Sotto le strade dove camminiamo, “c’è una città dove l’aria è calda anche d’inverno. Dove il buio è più nero della pece. Una terra proibita e sconosciuta in cui centinaia di gallerie, anfratti e cunicoli si chiudono improvvisamente in vicoli ciechi, costringendo i visitatori a tornare indietro”. E poiché la civiltà industriale ha fatto sua la logica di distruzione creatrice (la burrasca della distruzione creativa, diceva il vecchio Schumpeter) gli oggetti in questione sono un numero ingente. Testimoniano lo spreco e le esternalità negative del secondo capitalismo, il cui scopo era andare avanti, incurante del contesto, sempre più veloce, verso il profitto come se in corpo ci avesse l’amore. Di questo modo di fare che si credeva scientifico, e che invece, come tutti modi sociali, era  soltanto approssimativo, ci restano infinite e onerose testimonianze.

Naturalmente come tutte le operazioni di riscoperta questi grandi scenari aprono le porte al possibile riuso dei luoghi e dei manufatti oltre il loro senso antico. Se il piacere della scoperta è immediato il dovere del riuso è il compito a lungo termine. La quantità enorme dei ruderi apre anche un altro arduo interrogativo. Se invece di continuare a costruire migliaia di metri cubi per il gusto degli speculatori urbani ci ponessimo seriamente il problema del riuso dei fabbricati che hanno perso il loro scopo funzionale: le centinaia di colonie invase dagli sterpi, gli uffici deserti, le fabbriche diroccate faremmo sicuramente un favore all’intelligenza del progetto e all’intelligenza del paese. E’ ora di mettere un punto e a capo allo sfruttamento insensato del territorio, non ha senso parlare di transizione ecologica se la truce e mediocre avidità edificatoria continua imperterrita. Fabbricare, fabbricare, preferisco il rumore del mare, diceva Dino Campana, poeta erratico, che morì nel manicomio di Castel di Pulci. Fosse venuto il tempo di dire che aveva ragione?

Articolo © Giovanni Lanzone